~ itinerario di una settimana: day 4 ~
Con un viaggio in treno da Kanazawa verso sud giungiamo infine a Kyoto dove trascorreremo un paio di giorni prima di dirigerci verso Hiroshima e Miyajima, ultime tappe del nostro tour.
E’ una relazione decisamente complicata quello tra me e Kyoto.
Nei confronti dell’antica capitale del Giappone penso di aver sviluppato un rapporto di fascinazione e allo stesso tempo incertezza.
E’ l’innamoramento per la perfezione di tutte quelle zone antiche ricche di storia e spiritualità.
E’ il tentativo di appropriarsi di un briciolo di Bellezza, assistendo in prima persona alla Bellezza stessa.
Come non cadere in una simile trappola? Impossibile.
D’altronde ciò che è perfetto, è perfetto…
Non sono riuscita ad apprezzare però quella parte di città priva di un qualsiasi interesse artistico o architettonico. Se da Tokyo mi aspetto (e apprezzo) anche una certa decadenza, l’apparenza trasandata dovuta alla troppa fretta e alle troppe persone della metropoli, per Kyoto mi ero figurata, anche nelle zone meno battute e in cui siamo finite girovagando senza una meta precisa, una certa compostezza che però non ho trovato, l’immensa inimmaginabile bellezza di Kyoto è circondata da strade ed edifici che non sono nulla di che e a cui manca lo sfacciato e rude fascino dell’attuale capitale.
Il mio insomma è l’eterno dubbio tra il principe azzurro e il ragazzo cattivo.
Se Tokyo è sporca e dal carattere difficile ma riesce alla fine, sempre e comunque, a strapparti un sorriso, Kyoto ha quella perfezione accecante che si può ammirare solo in piccole dosi, ma chissà cosa nasconde se si guarda oltre al bagliore.
Certo, quando ci si addentra nel circuito dei templi, tra le strade di Gion e Pontocho, lungo le rive del Kamogawa, giù per la Passeggiata del Filosofo, allora la meraviglia è senza dubbio e senza obiezioni innegabile.
E ciò che, allo stesso modo, non si può negare è che alcune zone di questa città fin troppo perfetta, pur non essendo la mia problematica e complicata Tokyo, abbiano saputo trafiggermi comunque di emozioni.
Subito mi butto nell’esperienza di vedere dal vivo il Kinkakuji, “il tempio della pagoda d’oro”, duplicarsi sfolgorante nella pozza che lo circonda.
Dopo tante immagini passate davanti agli occhi su internet, sono momenti che non trovano chiarezza tramite ragione.
Non sono più solo pixel di qualcosa a diecimila chilometri da te, è reale, due piani rivestiti di foglia d’oro, l’acqua e gli alberi che in un’esplosione d’estate lo incorniciano.
Se si potesse spiegare ciò che c’è di sacro in Giappone, questa spiegazione passerebbe per le vie e per i templi di Kyoto, per le nuvole di inceso agitate da mani che volteggiano in aria e le attirano a sé, dagli schiocchi delle dita in preghiera. Sono luoghi che vivono di calma, di una bellezza seria, posata e tremenda, che hanno finito con l’impregnarsi di una spiritualità millenaria che non può davvero lasciare indifferenti.
C’è chi al Kinkakuji lancia monete per ingraziarsi una protezione benevola, chi posa nella cenere dei bracieri esili bastoncini di incenso, chi poi a lavoro già fatto arriva e ne respira il fumo a pieni polmoni in un atto di purificazione personale.
A Kyoto è tutto uno scivolare da un tempio all’altro, lasciati i luoghi del Kinkakuji, è il Ryoanji, “il tempio del Drago della Pace”, ad accoglierci.
La gelida armonia del suo giardino di roccia, dove quasi non cresce vita, colpisce con durezza e lascia spazio solo a una silenziosa contemplazione.
Si contano le rocce, che spuntano come isole in mezzo a quell’attento lavoro di pettine di cui la ghiaia segue le direzioni; 15 sono in tutto, ma qualsiasi sia l’angolazione da cui verranno osservate se ne potranno scorgere sempre e solo 14 in forza di un gioco di prospettive che nega una visione totale.
Anche il Ryoanji mi concede un’emozione inaspettata, là dietro l’angolo dell’hojo trovo un oggetto, uno tsukubai in pietra ricoperto di muschio e vi riconosco quell’immagine stampata più di 8 anni fa per la tesina dell’esame di terza media, quando lo studio del giapponese e il Giappone erano ancora un sogno lontano ma già allora tanto desiderato. Ed è lì che mi rendo conto che in piccola parte ce l’ho fatta, che sono dove volevo essere, che la fatica, lo studio e gli anni sono valsi tutti per trovarmi faccia a faccia con questo piccolo tsukubai. Kyoto non sarà Tokyo ma mi ha donato una consapevolezza che almeno un poco mi riempe d’orgoglio.
I kanji ai lati dello tsukubai da soli non significano nulla ma se si aggiunge ad essi il kanji kuchi/口 rappresentato dall’apertura centrale dello tsukubai, esce fuori la frase “ware tada taru shiru” ovvero “conosco solo abbondanza” il cui significato (in linea con i principi del buddhismo) è “ciò che uno possiede è tutto ciò di cui ha bisogno” Superato il Ryoanji, imbocchiamo la via per il Ninnaji, un enorme complesso che riesce a piantarmisi nel cuore al pari di tutti quegli edifici antichi giapponesi in cui mi è permesso camminare scalza, perché dove non ci sono scarpe c’è casa. Dove ci sono dita che toccano legno vecchio di secoli c’è conoscenza, dove il piede si posa libero c’è intimità ed è per me la sensazione che il tempio mi si conceda, che apra porte, sale, corridoi solo a me e me soltanto.
Possiede poi un’altra delle caratteristiche che più mi entusiasmano, l’intricato susseguirsi di stanze, ballatoi, porticati, passerelle da percorrere mossi da spirito di esplorazione.
Si scoprono coppiette appartate intente a chiacchierare, piccoli giardini, pagode che spuntano tra le fronde degli alberi, gente a piedi scalzi seduta un pò ovunque in un attimo di riposo e stanze dalle pareti dorate decorate di ciliegi e pavoni dipinti
Alla fine del percorso uno degli elementi più tipici del Giappone moderno: quando l’antico e il sacro incontrano il nuovo e la cultura pop. All’interno del Ninnaji è conservata una tavola disegnata dalla shoujyo mangaka Kanan Minami.
Decidiamo per la restante metà giornata di trasferirci appena a ovest di Kyoto, nella tranquilla e meravigliosa Arashiyama.
Nel tentativo di arrivare a piedi fino alla stazione ci perdiamo, come capita spesso in Giappone quando non si ha internet e non si è mai stati in precedenza in un posto. Ed è così che scopro la Kyoto svogliata, delle strade anonime e degli edifici piatti e mediocri. Quella che c’è ma viene ignorata perché ben coperta dal bagliore intenso di antichità lucidate a puntino.
Qualche passante fermato e qualche indicazione più in là, troviamo una stazione nascosta dalle case circostanti e 15 minuti di treno dopo (con la Sagano Line) giungiamo a destinazione.
Si scende giù dritte fino al Togetsukyo, “il ponte che attraversa la luna”, che insieme alle montagne che da dietro lo abbracciano, è uno degli scenari iconici di Arashiyama. Attraversando piccole vie senza nome e senza particolare attrattiva, in cui non c’è da vedere ma da sentire la vita quotidiana: piccoli vasi di piante e annaffiatoi appena fuori dall’uscio di casa, donne e bambini a cavalcioni di biciclette, il laboratorio di un artigiano che produce tatami dall’odore forte di paglia.
Si risale poi lungo le vie più turistiche, circondate da gruppi, scolaresche, qualche turista solitario ma soprattutto ristorantini, negozi di souvenir e chioschi che spargono profumi invitanti.
Nelle vetrine fa capolino uno dei piatti che contraddistinguono queste zone e che a Tokyo è raro vedere, la chasoba, “la soba al tè verde”, mentre su un muro di una via laterale spunta un enorme ventaglio a segnalarne un negozio, ancora più in là lungo i binari di una stazione dei treni, la Kimono Forest, un coloratissimo sentiero che non è altro che una foresta di quasi 600 cilindri ricoperti di stoffa in stile kimono che la notte si illuminano creando un’atmosfera magica.
Io e Ale, medaglia d’oro in “siamo buone a mangiare anche ciò che non abbiamo la più pallida idea di cosa sia”, ci lanciamo senza paura in uno dei nostri sport preferiti: l’assaggio scellerato di cibo di strada. Individuato il giusto chioschetto, diventiamo le orgogliose proprietarie di due misteriosi spiedini, dei quali l’unica cosa certa è che uno sia al gusto “polpo e cipollotto” e l’altro “gamberetti e maionese”, che cosa siano in realtà non è dato sapere ma le premesse non sono male e più sfatte che mai, dopo 4 giorni di su e giù dai treni a visitare da mattina a sera con 40° all’ombra, ci appoggiamo a una staccionata per consumare in pace la sconosciuta merenda …
è possibile vedere la Kimono Forest di Arashiyama alla stazione Keifuku/Randan Line
… è allora che ci accorgiamo che un gruppo di ragazze in divisa scolastica si è fermato davanti a noi a fissarci e confabulare. Le guardiamo, ci guardano, loro si dicono qualcosa, noi continuiamo a strafogarci di spiedini ben consce di quello che sta accadendo, alla fine ne spingono avanti una che balbetta qualcosa di incomprensibile in inglese, alla nostra risposta in giapponese anche le altre si fanno avanti incoraggiate “Possiamo fare una foto con voi?” chiede un’altra. Al nostro:“Mmm, certo perché no?”, incominciano ad urlare e a dire in giapponese quello che tradotto in italiano sarebbe: “ommioddio non ci credo – wow – urli – urli di gioia – urletti di VERA gioia- gioia assolutamente GENUINA ed ESAGERATA”, ci mettiamo in posa, loro più emozionate che mai, noi alquanto stranite. Ma fa niente, il Giappone è così che lo si vive, con appunto pazienza e una buona dose di autoironia.
Non so sinceramente se sentirmi una super star o uno strano fenomeno da baraccone, in ogni caso per averle rese così felici penso di aver fatto la buona azione dell’anno.
Dopo i nostri 5 minuti di gloria e con un paio di contatti di LINE in più, torniamo nel più oscuro anonimato e proseguiamo la passeggiata dirigendoci verso la famosa Foresta di Bambù.
Tanto attesi i suoi silenzi, i tronchi sottili e verdi che coprono il cielo, quando ci si addentra all’interno dei suoi sentieri.
E’ la foresta di bambù che ti ingoia e allontana il mondo esterno, ti spinge giù, fin dentro al suo ventre verde, tra le stradine di terra battuta che si diramano come capillari, solo un passaggio a livello solitario che mormora la sua cantilena stridula ad ogni transito di treno in mezzo alla foresta, ti ricorda che un mondo là fuori esiste davvero.
Di Arashiyama ho incontrato solamente gli scenari più iconici, e l’incontro non mi è bastato, il tempo trascorso tra le sue braccia non mi è bastato, ci sono ancora tanti luoghi che vorrei scoprire e vivere, gli spunti ci sono tutti (anche grazie al blog Orizzonti), significa solo pazientare in attesa di un certo ritorno.
Per ora sono costretta a far nuovamente marcia verso Kyoto, in mente però un obiettivo consolatorio: okonomiyaki, una delle specialità per eccellenza del Kansai, il cui nome significa letteralmente “tutto quello che vuoi alla griglia”.
Una sorta di enorme frittata di cavolo, farina, uova e a seconda dei casi carne, pesce, gamberetti e sopra abbondante maionese giapponese, salsa otafuku e katsuobushi: un enorme pastrocchio, cotto alla piastra, di pura bontà. Ciò che è caratteristico e divertente dei ristoranti di okonomiyaki sono i tavoli al cui centro c’è una piastra su cui gli okomiyaki vengono posati. Talvolta (come nel caso del ristorante in cui siamo state) l’okonomiyaki viene preparato dal cuoco e poi posato sulla piastra al centro del tavolo, altre volte invece è proprio il cliente a dover montare il proprio okonomiyaki. Noi ci affidiamo alle sapienti cure dell’ Hanamarutei, che pare essere piuttosto quotato, e vengo investita così dall’ultima grande esperienza della giornata: sembra talmente lontano il tempo in cui guardavo Marrabbio preparare il piatto che ora ho di fronte, seduta davanti alla tv sgranocchiando la merenda di ritorno dalla scuola elementare. Kiss me Licia, a suo modo, raffigurava un mondo esclusivamente rinchiuso nei confini di uno schermo eppure reale, da qualche parte, a chilometri e chilometri di distanza esistevano davvero delle isole chiamate Giappone. Se i sogni di una bambina si potessero misurare in sgranocchiamenti di merendine davanti alla tv per cercare di rubare briciole di un Paese troppo lontano, già allora si potrebbe dire che ero solita riempirmi la testa di aspirazioni estremamente grandi. Forse è così che doveva andare, e non mi stancherò mai di ribadirlo, Tokyo era destinata a darmi amore, quell’amore bello e ruvido tipico delle cose che di semplice hanno ben poco, ma Kyoto che si ciba di antichità si era prefissata, per qualche motivo, il compito di mettermi di fronte ai fatti del passato e restituirmi una vivida consapevolezza del percorso fatto. Anche Marrabbio e i suoi pancake giapponesi, anche quell’immagine stampata per una tesina quando ancora nemmeno sapevo cosa fosse uno tsukubai, anche i più piccoli dettagli a ben ripensarci, mi hanno condotta qui … ho fatto in modo che mi portassero qui… e senza dubbio non c’è soddisfazione più grande. Dentro la stazione: alcuni carinissimi sample di ekiben, ovvero “bentou della stazione”, si tratta di bentou che vengono portati in treno per mangiare durante lunghe tratte, scatole con piccoli scompartimenti ognuno contenente porzioni di pietanze diverse
cuochi al lavoro all’ Hanamarutei della stazione di Kyoto
Per scoprire di pù sull’itineraio di una settimana in giro per il Giappone ☆*:. o(≧ ▽ ≦)o .:*☆
Cosa ne pensate di questo itinerario tra una delle zone di Kyoto e Arashiyama ?? ~( ̄▽ ̄)~
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Ci vediamo alla Prossima Fermata gente ⊂(。・ω・。)⊃ !!!
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