~ itinerario di una settima: day 5 ~
Un’altra giornata a Kyoto è un’altra giornata spesa alla ricerca della bellezza, in un itinerario che porta a piedi da Higashiyama Nord fino a Higashiyama Sud. Passo dopo passo lascio che la città mi sveli i suoi tesori antichi, occhi attenti e orecchie tese, passo dopo passo stringo a me per primo il Ginkakuji e abbraccio a fine giornata il Kiyomizudera.
Mi chiedo quanti siano i passi che conducono da Higashiyama nord a Higashiyama sud.
Se ce ne sia un numero preciso o se alla fine spinti dalla bellezza si finisce col distrarsi, incantarsi, perdersi.
Quanti passi si debbano compiere per scoprire tutta la meraviglia di Kyoto.
Si cambia zona della città oggi, ma se una cosa è costante in Kyoto è che anche qui ad accogliermi sono luoghi fatti non solo di legno e pietra. Nelle loro fondamenta c’è bellezza autentica, la meraviglia di un’epoca passata e di splendori inimmaginabili, che il tempo non attenua, anzi lucida a puntino.
Nelle zone storiche è in ogni angolo, in ogni pietra e foglia, perché Kyoto è così … è una città di bellezza e quiete, e ce ne si potrebbero riempire cuore e petto e ancora non basterebbero a contenere tutta quella meraviglia …
Meraviglia è la prima tappa della giornata, il Ginkakuji, il “tempio della pagoda d’argento”, che d’argento non lo è per davvero ma che in giornate grigie come questa ha stagni che si tingono delle sfumature della luna.
E’ un luogo che si divide tra la puntigliosa perfezione del suo giardino di sabbia e l’irrequieta bellezza del vicino giardino di muschio.
E’ soprattutto quest’ultimo a colpirmi particolarmente: una natura selvaggia e piena, che riempe ogni spazio fino all’orizzonte, che intralcia l’occhio e soffoca la vista con il suo verde.
Ci si perde tra i sentieri di pietra e muschio, dove la luce del sole, tra le fronde fitte degli alberi e il tempo nuvoloso, stenta ad arrivare. Ci si inerpica su per le colline e se si ascolta attentamente, si può udire forte e chiaro, il silenzio del Giappone. Quel Giappone fatto di sfocature e rumori ovattati, talvolta addirittura muti, dove è il sentire più che il fare ciò che conta.
Alle volte mi sembra davvero di sentir parlare il Giappone, in luoghi come Tokyo ne distingui le urla, i pianti, le risate a pieni polmoni, le risate sguaiate, ti investe di sensazioni, ti ubriaca e sbraita, fa il complicato, dice e non dice. Una relazione profonda di quelle che si costruiscono pietra dopo pietra.
Ma a Kyoto il Giappone sussurra, poche dolci parole, ed il gioco è fatto, ti ritrovi innamorato ancor prima di aver detto “sì, lo voglio”.
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Ci sono diverse ipotesi riguardo il nome di questo tempio, una prima spiegazione è che si tratti di un soprannome creato solo dopo la costruzione dell’edificio con lo scopo di contrapporlo al Kinkakuji, una seconda spiegazione si collega al fatto che originariamente il tempio fosse ricoperto di lacca nera, che riflettendo i raggi delle luna, ne tingeva i muri d’argento.
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Pochi passi separano i silenzi del tempio dalla rumorosa via commerciale sottostante, gremita di turisti, negozi di souvenir e snack tradizionali, un brulicare di vita compatto e variegato dal quale vedo spuntare quella che senz’altro è la succursale del paradiso stesso: un negozio di shuu kurimu, la versione giapponese dei bomboloni, ripieni però fino all’orlo di densa e verdissima crema al matcha, una cosa da andare in overdose di zucchero alla sola vista del banco traboccante di dolci.
Sono il sorriso della signora che me lo serve, l’impasto morbido, la crema soffice e generosa a rendere quella turistica stradina un luogo di ricordi, a condurmi morso dopo morso fino ad imboccare Tetsugaku no michi, “la passeggiata del filosofo”, un lungo sentiero di case antiche costeggiato da un lato da un piccolo torrente e sormontato da alberi che in primavera si lustrano di rosa, trasformandosi in meravigliosi ciliegi in fiore. Ora si annodano sulle nostre teste dando vita ad una rada cupola verde.
Una naturale passeggiata coperta che dà l’idea di un abbraccio, braccia strette di case in legno consumato e piccole statue per la preghiera, pietra, alberi e templi nascosti, che celano gelosamente la propria bellezza all’occhio disattento.
Sono passi curiosi quelli che mi fanno abbandonare la strada principale e mi portano all’ Honen In, alle sue pietre squadrate e poco percorse, il muschio scuro che ne invade i sentieri. Sono passi attenti quelli che mi fanno voltare verso l’anziana signora ricurva che, abbandonato l’ombrello e incurante delle live pioggia, congiunge le mani in preghiera di fronte ai dei deformi e grezzi jizo di pietra.
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Se visitate il Ginkakuji non potete assolutamente perdervi questi favolosi shuu kurimu al matcha |
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La morte sotto forma di matcha |
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La passeggiata del Filosofo prende questo nome da Nishida Kintaro, uno dei filosofi giapponesi più famosi che era solito percorrere questo sentiero tutte le mattine per recarsi all’Università di Kyoto
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L’entrata del Honen in , un piccolo tesoro nascosto lungo la Passeggiata del Filosofo |
La Passeggiata del Filosofo, che sembra fatta apposta per condurre da un tempio all’altro circondati da ciò che è antico e quieto, mi deposita dolcemente ai piedi del Nanzenji, un complesso di templi di grande importanza religiosa ma poco frequentato dai turisti, in un susseguirsi di tetti ricciuti, giardini meravigliosi, l’insolito apparire poi di un acquedotto di epoca Meiji dalla arcate panciute, le colonne scure e legnose che come gambe solide ne sorreggono il Sanmon, le spalle intarsiate, il tetto come un cappello di mattoncini grigi e lucidi.
E’ nel parco che lo circonda che assisto a quella che sembra una scena uscita direttamente da un manga: un gruppo di giovani giocatori di baseball in divisa si aggira munito di pinze e sacchetti per raccogliere le cartacce. Si palesa in tutta la sua semplicità il ferreo senso civico giapponese, che non fa parte solo di storie di carta confezionate per divertire, ma è realtà tangibile in cui ragazzini delle medie, nelle loro belle divise sportive, si adoperano per rendere migliore quello che effettivamente è anche loro perché appartenente alla comunità.
Se l’Italia solo avesse più rispetto per se stessa … se si amasse e se la amassimo un pò di più, anche la nostra terra ha la sua dose di incredibile bellezza, diversa certo, unica anzi, eppure…
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Il Sanmon del Nanzenji, si può salire pagando sulla balconata per osservare il parco e la città dall’alto |
Sono queste riflessioni e un’altra manciata di passi a condurmi ancora dalla fine della Passeggiata del Filosofo all’ Heian Jingu. Sotto il suo immenso torii rosso, giù per la lunga via dritta costeggiata da taxi, nel ventre del grande cortile abbracciato da edifici scarlatti e alberi che indossano una parrucca da ciliegi in fiore, fronde bianche che altro non sono che mikuji, fogli custodi di destini sereni o infelici, annodati ai rami spigolosi e spogli.
Dietro la facciata, il rosso lascia il posto al verde di un meraviglioso giardino giapponese fatto di ponti, stagni, pietre e muschio.
E’ un riavvolgere di passi, una conta all’indietro sulla strada precedentemente percorsa e l’ora di pranzo imminente che mi attirano nuovamente verso i luoghi del Ginkakuji.
Prima il fascino fatale di un ristorante che vende piatti a forma di orsetti kawaii, un Rilakkuma che riposa sotto un omuraisu al ketchup e un orso bianco che fa il bagno nel katsu karee, per un attimo anche i fermi propositi miei e di Ale tentennano ipnotizzate dall’idea di un pasto kawaii.
Poi la sofferta decisione (addio orsi kawaii, non vi dimenticherò mai) di voler afferrare i veri sapori della cucina giapponese ci fa approdare in un ristorantino di chasoba precedentemente adocchiato: una scodella fumante di chasoba dal sapore delicato, e zaru soba al tè verde da immergere in uno tusyu saporito, giusto per non farsi mancare nulla e sia mai che poi usciamo da qualche posto non rotolando.
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I むすび木 / musubi ki, ai quali si annodano i mikuji che hanno predetto una sorte sfavorevole
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A sinistra chasoba calda in brodo, a destra zaru soba al tè verde fredda da immergere nella salsa tsuyu, se siete a Kyoto dovete assolutamente provare questo piatto |
Pancia piena e forze riacquistate ci incamminiamo verso il Chion In, proprio quando la giornata, iniziata grigia, sta pian piano mutando.
L’aria torrida tipica dell’estate giapponese che fa capolino mentre esploriamo gli infiniti sentieri di questo tempio particolare.
Attraverso ponti, lungo stradine che trovano riparo dal sole sotto file di alberi folti, si osserva la bellezza delle ninfee, di un braciere solitario di incenso, su per rapide scalinate, si conquista la vetta di Kyoto.
In cima alla collina, padrona del mondo per quei pochi istanti, mi arrampico sulle strette scale di una piccola pagoda, sfilo le scarpe e le abbandono incurante, sporgo il naso al di là dell’apertura in legno e scopro quello che è per me il vero tesoro di questo luogo: una sala di preghiera e meditazione, là sul cucuzzolo del mondo, aperta verso lo strapiombo, cuscini piatti e sconosciuti strumenti a percussione sparsi un pò ovunque sul pavimento scuro.
Nella penombra, al riparo dai rumori e dalla folla della città, una signora che legge seduta in seiza. Scivolo su uno dei cuscini e mi sorride benevola, mi guarda per un attimo armeggiare con lo strano strumento quando mette da parte il libro per mostrarmene l’uso, la preghiera che segue il suono secco e legnoso. E’ l’attimo di gentilezza che ricevo in un luogo fuori dal mondo, sulle cime di una Kyoto che pare ora la città della serenità.
E’ difficile andarsene, lasciarsi alle spalle quella tranquillità sovrumana che fa sentire molle il corpo e pulita la mente, in cima a Kyoto non esistono preoccupazioni e non esiste fretta, si sta bene sul cucuzzolo del mondo.
La discesa è lenta, passo passo, fino a imboccare il Parco Maruyama e imbattersi nuovamente nei colori accessi di un altro tempio, lo Yasaka Jinja che da un lato si apre verso il caos cittadino di Shijo Dori e dall’altro tenta di preservare una parvenza di quiete.
Di questo tempio, dedicato anche alla bellezza esteriore ed interiore delle donne, caratteristiche sono le lunghe corde che si tirano e il rumore di campanacci durante la preghiera, le lanterne bianche impilate ordinatamente che riportano i nomi dei benefattori del tempio e che la notte si accendono creando uno scenario suggestivo.
Lasciato alle spalle lo Yasaka Jinja si ridiscende finalmente verso la spettacolare zona degli edifici tradizionali, si incontrano le prime case in legno di questa porzione di città in cui del mattone non si vede nemmeno l’ombra, i tetti un pò ricciuti di tegole scure, entrate e finestre riparate da scacchiere di legno.
Sono i dettagli: i due piccoli Komainu che vegliano l’ingresso di un’abitazione, i colori degli yukata e la pelle delicate di ragazze orientali che si riparano sotto i loro ombrelli, la lanterna che oscilla davanti a una porta con sopra un Karakasa scarlatto che fa la linguaccia.
Sono le atmosfere di Nene no Michi, il “Sentiero di Nene”, piccola strada lastricata che prende il nome dalla moglie del famoso condottiero Toyotomi Hideyoshi, che qui era solita passeggiare.
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Due piccoli Komainu a guardia di questa abitazione. Si tratta di statua di creature simili a leoni, che solitamente si trovano all’ingresso dei templi e hanno il compito di cacciare via gli spiriti maligni |
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Su questa lanterna un carinissimo Karakasa rosso, si tratta di spiriti o yokai (esseri soprannaturali del folklore giapponese) con un occhio solo, una lunga lingua e che saltellano in giro sulla loro gambetta indossando un solo geta. Talvolta sono anche considerati degli tsukumogami, ovvero oggetti (in questo caso ombrelli) che raggiunti i 100 anni d’età prendono vita |
Si incontra lungo il cammino, andando verso la parte più interna e caratteristica di Higashiyama sud, il nascosto Kodaiji, quando Nene no Michi si allunga in Daidokoro Zaka, sulla cima di una scalinata anonima si scorge l’entrata decorata di lanterne e spiritelli.
Ci accolgono il Santuario Temmangu e le sue ruote buddhiste, il piccole bue e la statue di Nene, fondatrice del tempio, e suo marito Toyotomi.
La mano destra si posa in cerca di benedizioni, sulla testa del bue, sulle ruote Mani che girano facendo volteggiare i loro simboli sanscriti.
Salute e longevità che questo piccolo Santuario, parte del complesso del Kodaiji, pare essere in grado di donare a coloro che si rivolgono a lui in preghiera.
Ci si allunga fino alla Yasaka no To, la pagoda che da un lato domina Nene no Michi, e dall’altro lancia uno sguardo su Gion.
Perso il suo tempio durante un incendio è rimasta solo lei, dritta e fiera, in cima alla propria stradina di case brune consumate dal tempo.
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Da questa parte c’è l’entrata del Kodaiji vera e propria, il tempio ha un bellissimo giardino interno che è assolutamente da non perdere
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Temmangu ushi / il bue Temmangu nel piccolo santuario Temmangu che fa parte del complesso del Kodaiji. I buoi vengono considerati messaggeri di Tenjin sama, la divinità shintoista a cui è dedicato il santuario. Nel caso in cui si abbia qualche malattia si ritiene che, toccando la parte del corpo corrispondente della statua, questa passi poiché il piccolo bue ha il potere di farsi carico del male delle persone che si affidano a lui. In fondo a sinistra si possono vedere anche le Mani Sha / le ruote Mani, oggetti del culto buddhista che riportano in questo caso il sutra del cuore, si possono guadagnare meriti, esaudire desideri e preghiere facendole girare. |
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E’ possibile salire sulla pagoda per avere una bellissima visuale su Kyoto. E’ infatti una delle poche pagode visitabile anche all’interno |
Nene ci accompagna per un breve tratto ancora fino quando si dirama nella stretta Ishibei Koji e si stiracchia fino all’estremità di Sannen Zaka.
Ci lasciamo avvolgere dall’inaspettata tranquillità della prima, dalle pietre lisce e le file di edifici che seguono lo scorrere a zig zag di una stradina fatta di spigoli precisi e muri di pannelli chiaroscuri.
E’ il luogo che più a Kyoto ne racchiude l’animo semplice e raffinato, la Kyoto dei sogni, immaginata e finalmente trovata, nei kanji bianchi e neri delle insegne minimaliste, nel legno lucido e liscio, nelle piccole lanterne, in quella che è una sfilata di ryokan e ristoranti di alto livello preservati nell’aspetto posato e maestoso di un tempo.
E’ un salire e un scendere questo percorso, so quali sono le mete ma non come ci arriverò, mi lascio chiamare da quegli angoli di città che mi attirano, che bisbigliano il mio nome, una stretta stradina, delle ripide scale, un vicolo misterioso o una svolta inaspettata. Kyoto ha un conturbante potere d’attrazione, perdersi tra le sue strade è come perdersi nel tempo, ed è come mettere sul fuoco la mia voglia di esplorare, alla fine finisce che bolle e ribolle di trepidazione.
Incontro in questa maniera la grande Ryozen Kannon, quando meno me lo aspetto, in tutta la sua imponenza, sulla cima di una collina che sorge alla fine di Nene no Michi. Bianca come neve, veglia sulle anime dei soldati morti durante la Seconda Guerra Mondiale, giapponesi ma anche alleati. Acceso un incenso ci si potrebbe ricavare del tempo per riflettere, pensare a ciò che è stato, ai tumulti di una guerra che ha mutilato il mondo e tolto agli uomini la loro umanità, ma il luogo è troppo bello, troppo lindo, Kyoto non ha il volto sfregiato dalla Seconda Guerra Mondiale, nemmeno una cicatrice o un’ammaccatura che testimoni quegli anni bui. La statua di Kannon resta di una bellezza accecante, uno dei miei luoghi preferiti di Kyoto addirittura, ma è “solo” Hiroshima che riuscirà a farmi piangere, a farmi provare quella rabbia da groppo in gola che sento quando mi trovo di fronte a una grande ingiustizia.
E credo che nemmeno sia lo scopo della statua, più che un luogo di lacrime, un luogo di pace per chi a suo tempo non ha potuto averne la propria meritata dose e per tutti coloro che a indicibili sofferenze sono sopravvissuti.
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I muri di legno sono sostenuti da basamenti di pietra da cui la via prende il nome, Ishibei Koji significa infatti letteralmente “Piccola via dai muri di pietra” |
Dalla sommità della collina si scorge il dipanarsi di Sannenzaka, il suo naturale trasformarsi nella più stretta Ninenzaka, come un fiume attraversato da un banco di turisti variopinti che agitano le pinne in tutte le direzioni. Se ne segui la corrente arrivi fino alla foce, che non è a mare ma a monte, su nel Kiyomizudera.
Il letto di questo lungo fiume di pietra sono salite e scalinate, gli argini antichi edifici in legno, ora diventati piccoli ristorantini e per lo più negozi di souvenir.
All’entrata di Sannen Zaka ci troviamo davanti all’improvviso due maiko, due apprendiste geiko (come vengono chiamate le geisha a Kyoto), i volti bianchi e gli obi voluminosi, vestiti abbondantemente decorati e colletto rosso.
Un’emozione unica, non ponderata, e la frenesia di volerle immortalare, perché pare che a leggerne, le geisha non
siano creature di questo mondo, bianche come spiriti, si vestono di passato e tradizioni. Fluttuano via mentre le seguo (più esattamente pedino come una stalker pazza), infilandosi in una stradina laterale.
Come sono apparse scompaiono, il loro è un microcosmo di grazia, il mio quello di una ragazza in pantaloncini che sotto il sole cocente si è consumata la suola delle scarpe, ognuno sta al suo posto ed è proprio per questo che tanto le vedo inarrivabili com’è giusto che sia, belle ma di una bellezza che in questo mondo non esiste, di nuovo com’è giusto che sia.
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Scalinata lungo Sannenzaka |
Giungiamo alla tappa finale dell’itinerario verso il tramonto. Il Kiyomizudera, che si staglia scuro contro il cielo, accompagna le ultime preghiere della giornata. Sono preghiere che traballano sulla fiamma tremula di una candela, prima decorata di kanji che chiamano a gran voce il successo dei sogni espressi, accesa e poi lasciata alle cure del buddha in una stanza buia e stretta.
Non c’è solo il fuoco di quei desideri a ricordarmi questo tempio ma anche il vento dei furin che turbinano furiosi riempiendo di tintinnii l’aria e l’acqua sacra alla quale ancora una volta, bagnandosi le labbra, si domanda una sorte favorevole.
In Giappone ho pregato, tanto, non in nome di un dio ma in nome di quello che sono e vorrei essere, per quello che ho e ancora devo costruire. Il Giappone, in cui religioni diverse e credenze popolari si mescolano, lo permette, non c’è critica, ma più che altro una grande leggerezza di cuore nel poter confidare pene e sogni a qualche kami insolito, lasciare le sorti della propria fortuna in amore a una pietra miracolosa o solo domandare del semplice successo a scuola a dell’acqua considerata sacra.
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La sala principale del tempio si affaccia su un colle e si innalza per 13 metri sorretta da colonne in legno incastrate tra loro senza uso di chiodi |
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All’interno del Kiyomizudera si trova il Jishu Jinja, tempio dedicato alla fortuna in amore. All’interno del tempio ci sono due pietre dell’amore poste a 6 metri di distanza, si ritiene che chiunque riesca ad andare da una pietra all’altra tenendo gli occhi chiusi sarà fortunato in amore e che se ci si avvale di qualcuno per raggiungere la seconda pietra sarà necessario un intermediario anche per trovare il proprio partner |
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Kiyomizudera significa “tempio dell’acqua pura”. Questo nome deriva dalla Cascata Otowa presente all’interno del tempio, le cui acque sono considerate sacre. L’acqua della cascata si divide in tre fonti più piccole ognuna delle quali si ritiene porti benefici diversi: longevità, successo scolastico, fortuna in amore. Si può bere da una sola delle tre fonti, bere da più di una è un atto di avidità che porta a conseguenze negative.
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Dopo un ultimo breve giro nelle vie che costeggiano il Kiyomizudera torniamo verso la stazione per la cena, la Kyoto Tower illuminata sopra le nostre teste.
Se ancora ne avessimo le forze potremmo provare a salire per vedere Kyoto dall’alto (l’ultima entrata è alle 20.40) ma lo stomaco borbotta bisognoso di cibo e la voglia di infilarsi a letto e riposare si fa sentire.
Puntiamo un ristorante dove un signore, letteralmente in vetrina, prepara a mano degli udon e siccome dopo una giornata del genere un solo piatto di spaghettoni non pare davvero sufficiente ci aggiungiamo una bella scodella cicciona di katsudon.A fine giornata distendo le gambe e le stiracchio, tiro le somme: quanti passi ho compiuto?
1000, 5000, 10000?
A fine giornata posso affermare con assoluta certezza che davvero non ne ho idea.
Che il conto si ingarbuglia.
Che non ha poi grande importanza.
Perché Kyoto mi ha trascinata nei suoi angoli nascosti, mi ha preso per mano in quelli più turistici, mi ha viziata e cullata premiandomi con nuove esperienze.
Semplicemente mi rimane la consapevolezza che la meraviglia di Kyoto li merita tutti questi passi, che non importa quanto distante, quanto caldo, quanto stancante.
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Udon fatti a mano sul momento dal signore in vetrina e piatti finti, per mostrare le pietanze cucinate dal ristorante
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Un setto, ovvero un insieme di piatti che si può acquistare assieme ad un prezzo minore di quello che si pagherebbe acquistandoli singolarmente. Ho preso due dei miei piatti preferiti, zaru udon (a destra) e katsudon (a sinistra)
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Per scoprire di più sull’itinerario di una settimana in giro per il Giappone☆*:. o(≧ ▽ ≦)o .:*☆
→ Matsumoto ~ day 1
→ Takayama ~ day 2
→ Kanazawa ~ day 3
→ Kyoto parte 1 ~ day 4
→ Kyoto parte 3.1 Fushimi Inari, Pontocho, Sanjusangendo ~ day 6
→ Kyoto parte 3.2 Nara ~ day 6
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