Elogio ai luoghi d’ombra del Giappone, quelli dove la polvere si accumula, l’erba non è tagliata, dove i boschi sono così fitti da sembrare lingue nere su cui sono stinti carbone di zucchero e liquirizia. Là dove il sudiciume del tempo dona una patina piena di vita e valore, e a rinnovarne la bellezza non sarebbe di certo una mano fresca di bianco, ma piuttosto l’ombra degli anfratti, il rimescolio dello sporco.
Elogio a quei luoghi opachi, quelli che lustrandoli si sottrarrebbe invece che aggiungere, neri come lacche di un’altra epoca, pastosi come la carta giapponese, guardati con occhio giusto, con la corretta inclinazione, seppur neri, si rivelano capaci di riflettere il più microscopico frammento di luce. Sono il tremolio ipnotico di una fiammella la notte. Un arcobaleno notturno di toni di buio, in un certo senso inafferrabili, accesi e spenti, accesi e spenti, ma forse proprio per questo capaci di un’estrema fascinazione.
Quei luoghi pieni di impronte di mani sudate e aloni di respiri, tanto più belli perché toccati da infinite dita e vissuti da infiniti corpi.